Dice di me

EGIDIO NICORA  “SECONDO MARCELLO COMINETTI”
Passeggiare dopo una nevicata col cielo ancora grigio di nuvole grasse tra le tombe del cimitero di Staglieno o scansare i cavalli imbizzarriti di un’antica corsa ippica sarda e selvatica non per turisti.
Passare la notte tra i mercanti di pesce del mercato di Piazza Cavour o seguire un gruppo di scalatori di sassi.
Imbarcarsi su una lancia di pescatori di tonni, spiare la vestizione di una sposa o bazzicare intorno a una gozzo in costruzione – tutto con la macchina fotografica al collo – è quello che fa Egidio Nicora, fotografo e filosofo genovese.
Il bello è che poi queste storie per immagini prendono corpo nel fiume di parole che Egidio racconta e che mette per iscritto.
Me lo vedo mentre parla in genovese coi pescatori dandogli soddisfazione che lui ricambia con la sua.
Io Egidio lo conosco abbastanza bene. E’ anche il padrino di mio figlio e qualche anno fa ci siamo incontrati a Buenos Aires.
Per raccontare le sue storie e fare le sue foto a lui non serve andare lontano, ne trova di fantastiche in ogni posto e se le racconta come sa fare lui quasi tutte le foto che ha scattato non serve neppure vederle.
Egidio è un fotografo che fa le foto ma che riuscirebbe a fartele vedere anche solo con le parole.
Lui le foto le vende perché deve camparci, ma secondo me, potrebbe campare scrivendo le sue storie o raccontandole a una platea, come un attore che non deve recitare nessuna parte, se non quello che ha visto e sentito: la verità.
Quella volta a Buenos Aires era sulle tracce di antichi liguri divenuti argentini. Ristoratori e tangueros, bibliotecari e ingegneri, musici e commercianti. Li aveva scovati tutti, in una città di 12 milioni di abitanti lunga più di 100 kilometri che lui girava a piedi. Sì, perché aveva sentito dire che tra i taxisti c’erano dei ladri che ti portavano in una via secondaria, ti davano una fraccata di botte e poi ti derubavano.
Lui non girava con troppi soldi in tasca ma le macchine fotografiche le aveva sempre e non voleva rischiare di farsele rubare.
E poi non parlava una parola di spagnolo pur essendo stato in Argentina per un sacco di tempo, e cercava di esprimersi in dialetto genovese così da farsi riconoscere e la cosa funzionava a meraviglia. I discendenti dei vecchi genovesi li trovava tutti, anche perché non aveva difficoltà a parlare di qualsiasi cosa con chiunque. Era gennaio, l’equivalente del nostro luglio in fatto di temperature, e tutta quella strada a piedi con i sandali gli aveva scavato profonde piaghe nella carne, ma lui non è certo quello che si lamenta.
Egidio è un fotografo che se inizia un discorso che gli interessa –e sono davvero poche le cose che non lo interessano- si scorda di essere lì per fare le foto e se ne va senza averle fatte perché si è portato via i fatti e le parole che a lui bastano. Le foto le farà un’altra volta, quando non si sarà distratto con le parole sue e degli altri.
Per due giorni mi ha portato dai suoi conoscenti argentini che si esprimevano nel dialetto genovese che avevo sentito parlare da mia nonna e che ci chiedevano se a Genova ci fosse ancora questa o quell’altra cosa che noi neppure sapevamo fossero mai esistite.
Abbiamo mangiato le troffie al pesto, i bianchetti e la focaccia, ritrovandoci, uscendo di casa, a la Boca o in una laterale della 9 de Julio.
Ma gli antichi genovesi d’Argentina sono sparsi dappertutto e alcuni da visitare erano a Rosario, solo qualche ora d’auto dalla capitale. In 5 in una Fiat 127 che in Argentina si fabbrica ancora e si chiama ironicamente, Fiat Spazio, il viaggio senz’aria condizionata era stato epico.
Dopo i convenevoli e le foto di rito la Fiat Spazio, parcheggiata al centro di un immenso spiazzo soleggiato era lì ad aspettare i suoi passeggeri per riportarli a Buenos Aires. Egidio che lo racconta è una scena degna di una commedia del teatro dell’ opera. Dopo essersi schiacciati nell’abitacolo per partire, Egidio ha un mancamento per il caldo. Niente niente, non è niente, ho solo un po’ caldo, andiamo pure.
L’ho incontrato la sera che vagava per Palermo con i piedi piagati con la Voigtlaender Bessa a tracolla e alla mia domanda sul perché di tant’aria stravolta iniziò dicendomi: te la ricordi la Fiat 127…..?